|
|||||||||
Navarro: Un nome sulla pietra | |||||||||
Ramon procedeva spedito, il suono dei suoi passi attutito dal folto e variopinto manto erboso che ricopriva la piccola collinetta, sulla cui cima si trovava la sua destinazione. Si trattava di un modesto edificio in pietra, il quale ad ogni metro percorso andava emergendo da dietro la piccola altura, stagliandosi contro il cielo tinteggiato di carminio dall'imbrunire. Era proprio come se la ricordava: il piccolo campanile con il segnavento spezzato durante un temporale violento come non se n'erano mai visti prima, e neppure dopo, e l'angusta cappella, grande appena per contenere una ventina di persone, dove era stato battezzato. Sua madre gli aveva raccontato che era stata costruita nel diciottesimo secolo e né il progresso né tantomeno le guerre e l'incedere del tempo erano riusciti ad averne ragione. Orgogliosa e testarda come le genti che pregavano tra le sue mura, lei era ancora lì. Ramon si fermò qualche secondo per ammirare da lontano quell'immagine per lui meravigliosa. Era sul punto di riprendere il suo cammino quando uno sfrigolìo ed un movimento appena percettibile al limitare del suo campo visivo lo indussero a voltare la testa alla sua sinistra. A poche centinaia di metri dalla posizione in cui si era fermato, Ramon vide un boschetto di pini. Gli alberi erano talmente vicini che anche da così lontano era possibile scorgere quanto buio fosse il sottobosco, come se la luce del sole arrivasse fino alle cime delle piante per poi evitare impaurita di penetrarvi. Ramon aggrottò le sopracciglia a quella vista, scavando nella memoria per cercare di confermare l'esistenza di quel particolare, inutilmente. Era certo che non c'era mai stato nulla di simile, nei pressi della chiesa. =^=Computer?=^= disse rivolto al vento che prese a soffiare lieve, senza ottenere risposta. =^=Computer? Chiedo conferma parametri simulazione olografica...=^= insistette, con identico risultato. Spinto dalla curiosità ed ignorando il piccolo fremito che gli percorse la spina dorsale come monito, si incamminò verso la macchia d'alberi. Il suo corpo stava completamente ignorando le urla d'allarme che stava lanciando il cervello, dicendogli che avrebbe dovuto uscire subito dal ponte ologrammi e verificare che il computer non avesse dei malfunzionamenti. Invece, un passo dopo l'altro, coninuò ad avvicinarsi al boschetto. Visto da vicino, incuteva ancora più timore, dal momento che i tronchi si innalzavano contorcendosi nel tentativo di rubarsi l'un l'altro la luce. I rami più bassi, privati dell'elemento fondamentale per sintetizzare il loro nutrimento, erano spogli e avvizziti, dita scheletriche protese a ghermire gli stolti che si fossero inoltrati nel bosco. Un odore di marciume si levava dal tappeto di foglie morte ed ammuffite che ricopriva il terreno. Neanche quella vista ebbe il potere di fermare Ramon, il quale, dopo che i suoi occhi si furono abituati alla penombra, intravvide uno stretto e tortuoso sentiero e iniziò a percorrerlo. Un silenzio spettrale fu la sua unica compagnia durante il tragitto. Dopo un tempo impossibile a determinarsi, potevano essere trascorsi minuti come ore, secoli o anni, l'uomo giunse in un piccolo spiazzo al cui centro si trovava un enorme cespuglio di rovi. Un movimento attrasse la sua attenzione verso uno dei tronchi lì intorno. Con cautela, titubante, si avvicinò per osservare meglio. Posata sull'enorme fusto stava la farfalla più grande che Ramon avesse mai visto, la quale muoveva pigramente le sue ali dalla livrea dei colori del sottobosco. Guardandosi attorno, l'uomo si avvide che altre farfalle simili ma di dimensioni inferiori si erano posate sugli altri alberi, e presero tutte a muovere le ali sempre più velocemente. Ben presto, l'aria si riempì del ronzìo delle farfalle, un ronzìo irregolare e disarmonico, quasi fastidioso. La più grande di tutte, quella che Ramon aveva scorto per prima, improvvisamente si alzò in volo e si posò al centro del cespuglio di rovi, aprendo e chiudendo ritmicamente le ali. Ramon le si avvicinò spinto da un'impulso inspiegabile, desideroso ed al tempo stesso timoroso di toccarla, di sfiorare quelle membrane sottili dai disegni quasi ipnotici, di avvertire sulla pelle il tocco vellutato di quelle zampe così fragili. Prima ancora che potesse allungare la mano su di essa, notò che c'era qualcosa nascosto sotto all'intrico di arbusti e spine. Con cautela, prese a farsi un varco con le mani attraverso quella matassa contorta, sotto lo sguardo impassibile della farfalla che non si era spostata di un millimetro. Sembrava che ci fosse una pietra, al di sotto di tutto. Una pietra con un incisione sopra. Un nome, forse. Ramon riuscì a scorgere solo poche lettere, ma quello che lesse lo spinse a strappare con foga tutto ciò che gli capitava a tiro, incurante delle profonde lacerazioni che spine acuminate ed affilate come rasoi gli fecero alle braccia, trapassando con facilità le maniche dell'uniforme. Infine, la vide. Una pietra tombale. Con un nome scolpito in lettere eleganti. Il suo. Ramon Navarro. Laddove avrebbe dovuto esserci la sua foto non vi era altro che un foro ovale, profondo pochi millimetri. Alla fine era accaduto, o forse sarebbe dovuto ancora avvenire. Era morto, ed era stato sepolto lì, in quel luogo buio ed oscuro, lontano dagli occhi di tutti e dalla memoria di chiunque. Chi lo aveva sotterrato non si era neanche preso la briga di mettere la sua foto, e quindi di lui non sarebbe rimasta nemmeno un'immagine a ricordarlo. Lacrime di dolore presero a scorrergli lungo le guance e non si avvide che la farfalla che prima lo aveva osservato dalla sommità dei rovi si era posata sulla sua spalla. Le sue compagne presero a sbattere le ali più velocemente, ed il ronzìo crebbe d'intensità, riempiendo l'aria di una strano senso di aspettativa. Fu la prima puntura della farfalla più grande a rompere gli indugi. Ramon quasi non sentì la proboscide del lepidottero penetrargli nel collo. Il dolore fisico venne azzittito dal senso di angoscia che si era impossessato di lui. Non si rese conto di quello che stava succedendo fino a quando una decina delle farfalle più piccole si era posata su di lui, iniziando anch'esse a succhiare il suo sangue. Ma ormai era troppo tardi per reagire. Provò ad alzare un braccio per cercare di scacciarle via, ma si scoprì intorpidito ed impacciato nei movimenti. Oltre a succhiargli il sangue, evidentemente gli insetti gli avevano iniettato qualcosa, forse una neurotossina che aveva il compito di immobilizzare la preda paralizzandone i centri nervosi. Impossibilitato a fare qualsiasi cosa, persino ad urlare, Ramon non potè fare altro che osservare la moltitudine di farfalle che sembrò materializzarsi dal nulla posarsi su di lui, fino a quando non fu più in grado di vedere più nulla. Un grido silenzioso riecheggiò a lungo nel suo cervello quando si svegliò nella sua cabina, madido di sudore. |
|||||||||
|
|||||||||
|